Nel limbo della violenza: evidenze neuroanatomiche del comportamento criminale
Un organo sorprendente, pesante un chilo e poco più e costituito da miliardi di piccolissimi neuroni è situato alla sommità del nostro corpo, protetto all’interno della scatola cranica. Aristotele credeva che esso agisse come un radiatore, raffreddando il sangue e consentendo al cuore, considerato la sede dell’essenza umana, di funzionare in maniera ottimale. Cartesio che fosse una specie di “ricevitore per lo spirito” affinché quest’ultimo potesse comunicare con il corpo. Il frenologo Franz Joseph Gall sosteneva che la forma e posizione delle protuberanze (i famosi “bernoccoli”) presenti sul cranio di alcuni individui permettessero di predirne la personalità e le attitudini. Naturalmente oggi sappiamo bene che il cervello sovraintende e coordina ogni nostra attività: ci consente infatti di percepire e interagire con il mondo che ci circonda, di muoverci, pensare, provare emozioni, respirare, comunicare, apprendere, creare. Insomma, si tratta senza dubbio dell’“organo più complesso e misterioso di cui siamo dotati e, verosimilmente, anche l’oggetto più complesso al mondo” (Morris & Fillenz, 2010). Il desiderio e la necessità di svelarne i segreti più reconditi, apprendendo quanto più possibile circa la sua fisiologia, i meccanismi e le patologie che possono affliggerlo, hanno così aperto nei secoli la strada a numerosi studi e ricerche e condotto alla nascita di discipline ad esso dedicate, come le Neuroscienze.
L’obiettivo delle Neuroscienze, e in particolar modo quelle applicate al comportamento, è scoprire come da questo piccolo agglomerato gelatinoso di cellule pulsanti possa avere origine l’incoercibile universo della mente umana, con le sue innumerabili e sorprendenti capacità. Di fatto, quello che fino ad epoche non troppo distanti era uno dei soggetti privilegiati della speculazione filosofico-epistemologica, si è finalmente reso oggetto di indagine scientifica. Citando Pietrini (2008): “Con le metodologie di esplorazione funzionale del cervello, unitamente al grande sviluppo delle tecniche di biologia molecolare, abbiamo oggi un potentissimo microscopio per osservare i processi biochimici della nostra mente”. Proprio attraverso lo sviluppo di tali tecnologie ci è oggi possibile esplorare la natura e il ruolo delle complesse relazioni che intercorrono tra la rete neuronale e l’agire umano, specialmente in riferimento ai fenomeni mentali più articolati, come, ad esempio, la risposta individuale alle emozioni. Nel loro insieme, i risultati di queste ricerche stanno dimostrando come le funzioni mentali individuali legate alla condotta siano in parte riconducibili all’attività di specifiche strutture cerebrali, in particolare a carico del sistema limbico e della corteccia prefrontale. Più precisamente, il confronto tra individui sani – ossia non affetti da turbe del funzionamento sociale – con soggetti dall’indole violenta, sta ponendo sotto una luce sempre più chiara l’esistenza di differenze significative sia nel volume, sia nella risposta funzionale di aree chiave quali l’amigdala, l’ipotalamo, l’ippocampo e il giro del cingolo, le quali come è noto, rivestono un ruolo fondamentale nella regolazione delle emozioni, della memoria e, più in generale, della condotta umana nel suo complesso. A tal riguardo, è stato più volte dimostrato come in pazienti con lesioni traumatiche o affetti da patologie a carico di queste aree del cervello siano spesso riscontrabili limitate capacità critiche e di giudizio, instabilità emotiva, mancanza di empatia, rifiuto delle norme sociali e difficoltà nella gestione delle risposte comportamentali all’ambiente. Si tratta solitamente di individui con la capacità di intendere non compromessa, i quali, tuttavia, non riescono ad esercitare un adeguato controllo dei propri impulsi, specialmente se esposti anche ad ambienti sociali e culturali particolarmente sfavorevoli. Ad esempio, non troppi anni fa un gruppo di neuroscienziati statunitensi (Yang & Raine, 2009) ha sottolineato come la presenza di anomalie funzionali a carico del sistema limbico sia la caratteristica che si riscontra più spesso in criminali dall’indole particolarmente violenta. Lo studio è stato condotto su quarantuno uomini condannati per omicidio brutale, il cui cervello è stato scansionato mediante l’uso della tomografia ad emissione di positroni (PET) al fine di esaminarne l’attività metabolica durante l’esecuzione di compiti cognitivi e attentivi per individuare l’eventuale presenza di aree a funzionalità compromessa. Comparando i risultati ottenuti con quelli di un campione di controllo, composto da un egual numero di soggetti non violenti, si è visto come negli assassini fosse evidente una significativa alterazione del metabolismo cellulare, proprio a carico delle regioni limbiche.
Più o meno negli stessi anni, la Dottoressa Tatia M.C. Lee, docente di neuropsicologia alla Hong Kong University, ha effettuato uno studio con l’intento di esaminare i correlati neurali alla base della violenza domestica. I soggetti studiati erano ventitre individui di sesso maschile segnalati ai servizi sociali, alle forze dell’ordine e a psicologi professionisti perché resisi colpevoli di abuso ai danni delle proprie mogli e figli (Lee et al., 2009), comparati ovviamente con un campione di controllo. L’ipotesi di partenza era che questi uomini non fossero in grado di gestire le proprie frustrazioni, né di interpretare correttamente le intenzioni altrui, reagendo in modo spropositato agli stimoli emotivi e sfogando la propria ira contro le persone care, a causa di anomalie cerebrali. Così, per prima cosa è stata misurata la tendenza individuale all’aggressività sottoponendo tutti i soggetti in esame a due diversi compiti, uno a contenuto verbale, l’altro visivo.
Il compito verbale riguardava il test di Stroop, un paradigma classico utilizzato abitualmente nella ricerca clinica con il fine di indagare l’effetto dell’interferenza cognitiva sulle emozioni. Nel caso specifico, a ciascun partecipante venne presentata una lista di parole di colore diverso, alcune a contenuto emotivamente neutro, alcune positive e altre ancora a connotazione negativa (quali ad esempio “picchiare”, “punire” o “strangolare”). Il compito richiesto era quello di indicare quali di queste fossero scritte nel colore richiesto mentre i ricercatori prendevano nota del tempo che intercorreva tra la presentazione dello stimolo e la risposta del soggetto. L’idea era che, qualora lo stimolo presentato risultasse particolarmente saliente per l’individuo, costui avrebbe dovuto impiegare più tempo del solito a fornire la risposta corretta perché attratto dal contenuto della parola prima ancora che dal colore. In sostanza, maggiore è il tempo impiegato, più lo stimolo risulta emotivamente rilevante per il soggetto. Il secondo compito, questa volta visivo, consisteva invece nel presentare ai due gruppi di soggetti, sempre individualmente, una serie di immagini, anche in questo caso a connotazione neutra, positiva e negativa (un’arma, del sangue, la scena di una rapina e così via). Durante l’esecuzione di entrambi i compiti gli studiosi hanno scansionato il cervello dei soggetti mediante la risonanza magnetica funzionale (fMRI), con l’obiettivo di individuare quali aree cerebrali risultassero attive in risposta agli stimoli emotivamente salienti.
Tutto ciò ha condotto a quattro risultati interessanti: in primo luogo è stato rilevato che gli individui inclini alla violenza domestica presentano un’aggressività di tipo reattivo, ovvero agirebbero d’impeto in risposta ad atteggiamenti percepiti come una “provocazione” nei loro confronti esercitata da parte delle vittime. In secondo luogo è emerso che, durante il test di Stroop, gli individui abusanti tendevano ad indugiare prima di reagire alle parole emotivamente negative, segno che queste catturavano la loro attenzione più del dovuto. Terzo, il neuroimaging funzionale, svolto durante il test verbale, ha mostrato che negli individui violenti, a differenza del campione di controllo, si registrava un aumento del metabolismo dei neuroni limbici (in particolare dell’amigdala) proprio durante la presentazione delle parole a connotazione negativa, unitamente ad una minore attività della corteccia prefrontale, che come è noto, ha un ruolo nella gestione del comportamento. Infine, durante il test visivo, alla presentazione delle immagini a sfondo violento – ma non alla vista di quelle neutre o positive – è stata evidenziata in questi stessi individui una intensa attivazione delle aree cerebrali deputate al riconoscimento visivo e alla percezione spaziale, a dimostrazione del fatto che queste particolari immagini avevano definitivamente catturato la loro attenzione.
In anni più recenti, uno studio simile (Bueso-Izquierdo et al., 2016) ha a sua volta messo a confronto l’attività cerebrale di individui condannati per violenza domestica con quello di criminali non violenti. Anche in questo caso, tutti i soggetti sono stati sottoposti al brain scan durante l’osservazione di alcune diapositive. Alcune di queste ritraevano scene di soprusi rivolti al partner di vita, altre mostravano episodi di violenza generica, ad esempio risse, bullismo o atti vandalici, altre ancora erano a tema neutro. Coerentemente con quanto atteso, negli aggressori, ma non nel campione di controllo, è stata nuovamente registrata – in particolar modo durante l’osservazione delle immagini riguardanti gli episodi di maltrattamento – una preponderante attività di aree quali l’amigdala, l’ippocampo e il giro del cingolo (coinvolte con l’elaborazione mnemonica ed emotiva) e, contemporaneamente, una chiara riduzione dell’attività della corteccia prefrontale.
Certamente è necessario e imprescindibile, in particolar modo quando si tratta un argomento complesso e delicato come la violenza, rimanere cauti aborrendo la pericolosa e pretenziosa tentazione di generalizzare o prendere posizioni nette. Danni o anomalie neurologiche non sempre conducono allo sviluppo di comportamenti aberranti e, altrettanto, non sempre chi agisce in modo non conforme è necessariamente affetto da disfunzioni cerebrali. E’altresì innegabile che anche le contingenze ambientali, culturali e sociali esercitino un’influenza rilevante sull’attività neurale, condizionando di conseguenza l’agire stesso. Ad esempio, è ormai accertato il ruolo che l’ambiente prenatale gioca nello sviluppo corretto delle connessioni neurali o dell’attività ormonale, così come è più che assodata l’importanza della relazione di attaccamento madre-figlio per lo sviluppo appropriato della personalità, delle relazioni sociali ma anche delle strutture cerebrali stesse del bambino. E’ quindi fuori dubbio che il fattore biologico da solo non possa esaurire la spiegazione del comportamento umano, poiché può – e, soprattutto, deve – completarsi con l’aspetto funzionale, particolarmente condizionato dal contesto sociale e ambientale. Dunque, man mano che grazie alla ricerca vengono incasellati tra loro i vari fattori sociali, ambientali, genetici e neurobiologici all’interno del grande puzzle che predispone un individuo alla violenza, è sempre più evidente come le cause dell’agire umano siano imprescindibilmente da rilevarsi nel loro intreccio. Solo attraverso un approccio olistico e integrato è possibile aspirare a raggiungere una conoscenza globale ed esaustiva della condotta umana, in grado non solo di rivelare ma anche di spiegare, e quindi prevenire, le dinamiche e le situazioni da cui germinano crimine e violenza.
Riferimenti bibliografici
Bueso-Izquierdo, N., Verdejo-Román, J., Contreras-Rodríguez, O., Carmona-Perera, M., Pérez-García, M. & Hidalgo-Ruzzante, N. (2016). Are batterers different from other criminals? An fMRI study. In: Soc Cogn Affect Neurosci., 11, 5, 852-62. Doi: 10.1093/scan/nsw020
Lee, T.M.C., Chan, S.C. & Raine, A. (2009). Strong limbic and weak frontal activation to aggressive stimuli in spouse abusers. In: Molecular Psychiatry, 13, 7, 655-656. Doi: 10.1038/mp.2008.46
Liberati, A.S. (2021). I segreti del cervello violento. Un’analisi integrata tra neurocriminologia, genetica e ambiente. Self published on Amazon. ISBN 9798511578415
Morris, R. & Fillenz, M. (2010). La scienza del cervello. British Neuroscience Association.
Pietrini, P. & Bambini, V. (2009). Homo ferox: il contributo delle neuroscienze alla comprensione dei comportamenti aggressivi e criminali. Manuale di Neuroscienze Forensi, pp. 41-68 (cit. p. 49)
Yang, Y.L. & Raine, A. (2009). Prefrontal structural and functional brain imaging findings in antisocial, violent and psychopathic individuals: a meta-analysis. In: Psychiatry Research: Neuroimaging, 174, pp. 81-88. Doi: 10.1016/j.pscychresns.2009.03.012
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